Quando paesaggio è poesia
Il materiale contenuto in questo articolo è stato realizzato in occasione dell’intervento poetico nell’ambito della terza edizione di COSTRUIAMO PAESAGGIO - Festival delle Arti, il 25 luglio 2024.
Buonasera a tutti, ringrazio Massimo per questo invito in questo spazio meraviglioso, che è la manifestazione in sé e poi il luogo… non esistono – no? – inviti senza un luogo in cui incontrarsi… quindi grazie infinite… ho preparato un piccolo itinerario poetico da fare insieme… perché il nome che è stato dato a questo nostro incontro – quando paesaggio è poesia – è una bella provocazione… perché sempre dovrebbe essere così… il problema arriva proprio “quando” ci si dimentica che paesaggio è poesia…
D’Annunzio diceva “i versi sono nell'aria, il poeta li deve solo cercare” e questa affermazione, è vera – lo capiamo al volo – leggendo una breve e folgorante poesia di Emily Dickinson:
Conferisce il tramonto
all’occhio un’ignoranza
di spazio, di colore,
di ampiezza, di declino.
È pazzesca, in quattro versi non solo ci fa vedere lo stesso tramonto di cui parla lei, ci fa strizzare gli occhi, ci fa realizzare – se non lo abbiamo fatto prima – che ciò che c’è nel tramonto, come in altri mille paesaggi ma anche nei volti di chi amiamo, il nostro occhio non lo comprende del tutto… il nostro sguardo è imperfetto, ignorante… ci può girare attorno… ma non riesce a raggiungerne la conoscenza esatta, definitiva… c’è un’ignoranza che è ampiezza – di chi o cosa abbiamo di fronte – e declino, il nostro… ed Emily, la grande Emily lo scopre fissando il tramonto, e ce lo dice…
La poesia funziona così, perché in effetti la poesia (forse più di tutto ciò che su di essa si può dire) è proprio una forma di conoscenza, una conoscenza legata alla dimensione dello svelamento. Perché il poeta quando scrive non è che scrive di ciò che sa, ma inizia a saperlo scrivendone… esplorando… ed esplora proprio ciò che ha sotto agli occhi… dentro e fuori di sé…
Ed è per questa ragione che ha senso parlare di poesia sempre, soprattutto in occasioni come questa… la poesia sfida l’architettura della nostra anima, ci si confronta, la costruisce, anche a partire - più spesso a partire - dal paesaggio, da ciò che circonda i nostri sensi…
Dicevo prima, D’annunzio - lo stesso poeta che in "La sera fiesolana" ci lascia versi come:
“E ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti/ s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda/ e perché la volontà di dire/ le faccia belle”
Vedete, torna il paesaggio: Colline come labbra che si dischiudono a rivelare un segreto… le riusciamo a immaginare queste colline, no?
D’Annunzio diceva, appunto, i versi sono nell’aria… Pessoa, di cui sono stati anche presi in prestito alcuni versi per il programma di questo bel Festival, quasi contemporaneamente a D’Annunzio, diceva:
“La poesia è in ogni cosa: nel mare e nella terra, nel lago e sulla sponda del fiume.
È anche nella città, non lo si può negare…”
Ma veniamo a noi, proviamo a leggere insieme alcuni poeti… e scopriamo come il paesaggio fuori di noi dialoga col paesaggio della nostra anima… lo fa in tutti noi, il poeta semplicemente è uno che prova a tradurlo in lingua, in permanenza… così, per esempio, Mario Luzi a partire dai due muri di una via che sale, a partire dal freddo di primavera, a partire dal cammino per luoghi noti, giunge a consegnarci una conoscenza inedita sull’amore…
Leggiamo questa poesia:
Il pensiero della morte m’accompagna
tra i due muri di questa via che sale
e pena lungo i suoi tornanti. Il freddo
di primavera irrita i colori,
stranisce l’erba, il glicine, fa aspra
la selce; sotto cappe ed impermeabili
punge le mani secche, mette un brivido.
Tempo che soffre e fa soffrire, tempo
che in un turbine chiaro porta fiori
misti a crudeli apparizioni, e ognuna
mentre ti chiedi che cos’è sparisce
rapida nella polvere e nel vento.
Il cammino è per luoghi noti
se non che fatti irreali
prefigurano l’esilio e la morte.
Tu che sei, io che sono divenuto
che m’aggiro in così ventoso spazio,
uomo dietro una traccia fine e debole.
È incredibile ch’io ti cerchi in questo
o in altro luogo della terra dove
è molto se possiamo riconoscerci.
Ma è ancora un’età, la mia,
che s’aspetta dagli altri
quello che è in noi oppure non esiste.
L’amore aiuta a vivere, a durare,
l’amore annulla e dà principio. E quando
chi soffre o langue spera, se anche spera,
che un soccorso s’annunci di lontano,
è in lui, un soffio basta a suscitarlo.
Questo ho imparato e dimenticato mille volte,
ora da te mi torna fatto chiaro,
ora prende vivezza e verità.
La mia pena è durare oltre quest’attimo.
Oppure, ancora, questo testo di Cesare Pavese, molto ci fa capire quella corrispondenza di cui vi parlavo tra paesaggio e anima… e ritroviamo poi altre corrispondenze, la gola come una palude avvolta di nebbia ad esempio… ma leggiamo:
Piove
il madido asfalto
rispecchia i pallidi visi dei lampioni.
Tutto è grigio impuro pesante
non c'è coperta
che ripari dall'umido che penetra
nei capelli nelle spalle nelle ossa.
Stanco
di uno strano riposo che è stanchezza
svogliato vago ed agisco
di un andare che non ha scopo
di un agire che non ha risultato.
E penso senza aver pensieri.
I capelli
scuriti ed appesantiti
come piccolissime ragnatele di stagno
mi cadono sul volto e sulle orecchie
e la gola, solo la gola
è asciutta, come in un'immensa palude
avvolta di nebbia
un grano di rovente sabbia del deserto.
Piove
qualche ombrello lucido come l'asfalto
passando specchia un pallido lampione
non altra musica
che la monotona lacrima d'una grondaia
non altro odore di stoffa bagnata.
Piove ... Piove
(sotto sotto terra
o sopra le nubi
il mio corpo ed ancora di più la mia anima
troverebbero riparo alla pioggia?)
Il paesaggio nella poesia, misteriosamente, si lega anche al tema della memoria, i luoghi che abbiamo visitato parlano, si rivolgono a noi, hanno una voce e si fanno voce nelle parole dei poeti… se leggiamo questo testo di Giorgio Caproni, ci sembrerà di guardare una fotografia:
Così sbiadito a quest’ora
lo sguardo del mare,
che pare negli occhi
(macchie d’indaco appena
celesti)
del bagnino che tira in secco
le barche.
Come una randa cade
l’ultimo lembo di sole.
Di tante risa di donne,
un pigro schiumare
bianco sull’alghe, e un fresco
vento che sala il viso
rimane.
In quest’altra poesia, invece, il poeta – un danese, Henrik Nordbrandt – prende spunto da un posto, non capiamo bene… c’è una battigia, delle pietre… per raccontarci di un amore che si moltiplica:
Quanto avresti amato questo posto
le pietre calde sulla battigia
ora che il sole e la luna
splendono con la stessa forza
e la stessa dolcezza.
E in realtà lo amavi
- ma di più ora
che non sei più qui
e io lo amo
con nuova serietà: la serietà
per poterti amare con la quale
avrei dato la mia vita.
Ora mi accingo a terminare questo intervento, sperando di non essere stata noiosa come messaggera, e vi leggo solo qualche testo mio, il primo edito nel 2016 in Non Negare Nessuno, gli altri inediti:
***
È all’altezza della vita
anche maggio, con le ginocchia
al maestrale. L’estate
deve venire, ma non sa
ancora il momento non sa
nessuno il tempo
in cui arrivare, andare via.
Battezziamo giorni ore
rimangono per sbagliare
che poi non esiste
l’errore ma santo
il limite
essere creature
e soltanto questo è –
Ho addosso
cuciti milioni di sguardi
nessun rimpianto
Non negare nessuno (Cartacanta, 2016)
Il sole di marzo tra gli ulivi
e i tuoi pensieri, ieri dicevi
avremmo tardato.
L’amore gioca a nascondino
tra i cancelletti delle case
come quei gattini in primavera
a tagliare impazzite
le code alle lucertole.
***
Ci chiedevano di credere
alla giostra delle estati, alle statue
sotto il rastrello del sole sulle sere.
Ci chiedevano lo sguardo
con la guerra negli occhi
gli uccelli nei capelli
mentre rubavamo un bacio alla riva
col sapore di arancia sulla lingua
come certi amori alla porta
non siamo qui per finire.
Quest’ultima poesia, invece, l’ho scritta proprio in occasione di questo evento… gli scorsi giorni ci siamo presi una pausa, io e il mio fidanzato, e siamo venuti qui a Casacalenda – mio malgrado ero venuta qui poche volte. Abbiamo ripercorso un po’ questi luoghi senza meta… che poi, Casacalenda ha questa origine antichissima, l’hanno menzionata storici come il greco Polibio e lo scrittore latino Plinio il Vecchio; in passato aveva questo nome incantato, Kalena, la cui origine si inscrive un po’ nella leggenda: alcune fonti la associano al primo giorno del mese, altre (non si sa bene quanto certe) la fanno risalire all’aggettivo greco καλός, bello, e forse il nome antico poteva significare proprio “troppo bella”. Non lo sappiamo con assoluta certezza ma poco ci interessa – in questa sede – quanto sia vero. Abbiamo detto, infatti, di parlare di un tipo di conoscenza un po’ diverso quindi, senza annoiarvi troppo, vi leggo la mia poesia:
Sei troppo bella, Kalena
troppo bella, per la vista dei secoli
d’aria e colline – Kalena
promontorio di luce e scalini
e il ricamo sapiente delle mani
nelle biciclettine ai lampioni
Sei troppo bella
per gli occhi nostri e i sorrisi
di vento o il pianto dei bambini
dai terrazzini in pietra, gerani
dove ti giri e cammini
e sali, più alta, più in alto
Kalena, troppo bella e il suo volto
nel boschetto, il sentiero interrotto e l’arancio tramonto
cucito alla notte nelle ali della farfallina
Kalena, troppo bella e oggi al mio cuore
così vicina, è solo questa ora, l’incanto
del tempo in attesa di altro tempo per amare
queste colline e il suo nome
sempre troppo, oh Kalena, bella, troppo troppo
la tua Scacchiera, il mio matto canto
per ogni viaggiatore, non sia mai stanco
non sia mai stanco…
Intervento a cura di Alessia Iuliano - 25 luglio 2024